di Raffaella Bocci
Eravamo circa 1300 donne, l’aula del Parlamento era gremita. Per un momento sembrava più una festa che una commemorazione, forse perché quello che ci aspettavamo era sì un incontro importante, ma un po’ retorico, di quelli in cui la politica fa resoconti e illustra progetti.
Arriva la Presidente Boldrini, inizia la Giornata di commemorazione contro la violenza sulle donne. Poche parole introduttive tutt’altro che banali e poi, una dopo l’altra, le testimonianze delle donne che sono sopravvissute, di madri che cercano di dare un senso alla propria vita dopo la morte delle loro figlie. Parla Antonella Penati che continua a combattere nonostante suo figlio Federico sia stato ucciso, a colpi di coltello e a soli otto anni, per mano di quel padre che ha voluto in questo modo barbaro punire Antonella per non volersi sottomettere alla sua cultura islamica. Quello che ci indigna ancora di più è che Federico è stato ucciso mentre si trovava in un campo neutro, quello dei servizi sociali, dove il piccolo doveva incontrarlo in un “ambiente protetto”.
Il padre si è poi ucciso con quello stesso coltello insanguinato da un reato così efferato. Ma per Federico nessuno ha pagato.
La mamma parla con grande coraggio e lucidità, ha chiesto giustizia per suo figlio alla Corte di Strasburgo, perché in Italia la Cassazione ha assolto chi avrebbe dovuto proteggerlo. Proteggere quel figlio, nato per amore e diventato vittima della scelleratezza dell’essere umano. Eppure Antonella era lì, a raccontare la sua storia, a rinnovare il suo impegno per salvare anche un solo bambino dal figlicidio, a chiedere giustizia.
Già, perché Antonella ha dovuto anche subire l’accusa di essere una madre esagerata, di voler privare il bambino dell’affetto dell’altro genitore.
Conosciamo Serafina Strano, stuprata durante il turno di notte nella guardia medica di Tre Castagni in un paesino della Sicilia mentre semplicemente faceva il suo lavoro. Racconta di aver aperto a quel paziente che chiedeva aiuto e di aver passato le seguenti ore mentre veniva violentata e seviziata, a pregare di riuscire a rimanere in vita.
Emanuela De Vito, una giovane donna calabrese accoltellata alle spalle dal suo ex fidanzato ventitreenne mentre camminava. Viva per miracolo.
La sua voce spezzata dalla commozione, dalla paura, dalla morte che seppur in vita ancora porta dentro, perché l’uomo che l’ha colpita è tranquillamente libero di uscire di casa dopo una pena che negli anni è stata ridotta ai domiciliari, fino ad ottenere persino il diritto di uscire di casa per recarsi al lavoro. E poi ancora Alice Masala vittima allora dodicenne del cyberbullismo, sopravvissuta al linciaggio mediatico sui social ad opera di suoi coetanei senza pietà. E poi la mamma di Tiziana Cantone morta suicida dopo la diffusione di un suo video personale on line.
Parla la mamma di Sara Di Pietrantonio: una storia agghiacciante che vede la giovane romana tristemente protagonista di un amore malato in cui il suo fidanzato, non accettando la fine della loro storia, l’ha prima strangolata e poi data alle fiamme. Aveva solo 22 anni.
È poi la volta di Blessing Okoedion arrivata in Italia per lavorare e gettata sulla strada dai suoi aguzzini. Blessing era arrivata in aereo con tanto di passaporto e non su un barcone, non immaginava neanche cosa l’avrebbe attesa una volta giunta sul nostro Paese. La forza e il coraggio di denunciare, solo questo l’ha salvata.
Una dopo l’altra le testimonianze si susseguono, lo sgomento e la commozione invadono l’aula perché a sentirle tutte insieme queste donne ci riportano con i piedi per terra. Già, perché tutti ascoltiamo i servizi del telegiornale della sera, 5 minuti in cui ci soffermiamo sulla notizia di un femminicidio, ma poi torniamo distratti alla nostra routine, alla cena da mettere in tavola, a una conversazione in chat con un’amica. Finisce il tg e ognuno è ancora nella sicurezza o nell’inferno delle proprie mura domestiche.
Alla Camera siedono per la prima volta in 1300: donne delle istituzioni, donne delle forze dell’ordine, donne abusate, donne delle associazioni e donne comuni. Quando le senti parlare queste donne la cui vita è stata violata per sempre, una dopo l’altra, ti rendi conto che queste tragedie non sono poi tanto lontane da noi.
Usciamo con la consapevolezza che qualcosa possiamo davvero fare, che la mentalità del Paese deve cambiare, che abbiamo il compito di educare le nuove generazioni al rispetto, che dobbiamo iniziare a pensare che quando si parla di violenza, quello che avviene nella porta accanto, al piano di sotto o di sopra, non è più un affare privato di chi queste tragedie le vive dentro casa.
Solo così potremo dire di essere tutti impegnati nella lotta contro la violenza sulle donne e cambiare davvero le cose.