di Marzia Lazzerini, Giornalista
“Queste foto me le ha fatte mio padre. Dovevano rimanere private ma, visto che si continuano a mostrate, al telegiornale, le foto delle donne uccise che sorridono insieme ai loro carnefici, ho deciso di renderle pubbliche.. Io ho fatto una scelta forte e provocatoria, anche con un po’ di vergogna, ma ho capito la necessità di dare una immagine reale della violenza… Questo era da notare, non il trucco waterproof non tolto la sera prima o le mie labbra. Mettere a disposizione di tutti il mio corpo martoriato , la mia espressione sconvolta devono servire da monito”
Queste sono le parole di Lidia ancora oggi, dopo sei anni, il giorno dell’anniversario più brutto della sua vita, dopo aver avuto il coraggio di denuciare l’uomo che l’ha massacrata di botte tentando di ucciderla, dopo aver avuto il coraggio di pubblicare, non senza vergogna, le sue foto dopo il massacro. Un corpo nudo, ferito, sanguinante, livido, martoriato, una stanza divelta dalla violenza di un uomo che la sera prima dice di amare quella stessa donna. Queste sono le immagini della violenza. Queste sono le immagini che devono essere viste, che devono servire per il futuro. Non le vogliamo più vedere le immagini di donne sorridenti abbracciate agli uomini che le hanno uccise. Le foto sono un pugno nello stomaco. Ma dopo sei anni ancora devono servire. Perchè gli uomini, può succede, tornano in libertà. E senza alcun controllo.
Quella di Lidia Vivoli è una storia iniziata 6 anni fa, in provincia di Palermo, e che ancora non ha una fine. È una storia di violenza e di tentato femminicidio. E una storia Che non è finita con il coraggio di denunciare e non è finita mandando a processo l’uomo che l’ha ridotta in fin di vita. L’ex compagno durante la notte si alza e comincia a massacrarla per ucciderla. La colpisce con una padella in ghisa, le sferza delle forbici su tutto il corpo. In fin di vita si salva perchè le promette di non denunciarlo. Ma questa volta invece lo denuncerà. Quattro anni e sei mesi per tentato omicidio e sequestro di persona. Dopo 5 mesi esce agli arresti domiciliari. Fuori controllo, di se e delle istituzioni, rientra in carcere con l’accusa di stalking. Oggi è nuovamente agli arresti domiciliari. E’ stata emessa infatti un’ordinanza modificando la misura del carcere con quella dei domiciliari sotto il controllo elettronico: il famoso braccialetto elettronico.
All’inizio, circa due mesi fa, quando è stata emessa la misura cautelare, era stato dichiarato chei dispositivi in Italia non erano sufficienti. Per lui non c’era. Rischiava di tornare a casa senza nessun controllo. Ma se i braccialetti elettronici non ci sono si può comunque decidere per la misura cautelare. Questo è lo stato dei fatti. Lidia può avere un po’ meno paura ad oggi.
Ma la domanda è sempre la stessa: chi tutela le donne vittime di violenza? “Chi mi proteggerà” è la domanda che tutte le donne che hanno subito violenza si fanno. Ricordiamo che in Italia e nei paesi della UE il femminicidio non costituisce uno specifico reato. Nel maggio 2017 il gruppo di esperti di cui si avvale l’UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) per la definizione e l’implementazione della Classificazione Internazionale dei reati, di cui è parte anche l’Istat, ha riconosciuto il femminicidio come ‘‘un omicidio di una donna compiuto nell’ ambito familiare, ovvero dal partner, da un ex partner, o da un parente’’(studio Istat dell’11 aprile 2018). Sempre grazie ai dati istat sappiamo che negli ultimi cinque anni si osservano segnali di miglioramento rispetto all’ incidenza del fenomeno e una maggiore consapevolezza da parte delle donne, soprattutto giovani. Tuttavia lo zoccolo duro della violenza non è intaccato ed è in crescita la violenza assistita dai figli. Le donne spesso non parlano con nessuno di ciò che subiscono e poche denunciano alle forze dell’ordine. La maggior parte delle donne che ha subito violenza e che ha paura, infatti, aveva già denunciato. Lidia è una di queste.