13 marzo 2020
Di Raffaella Bocci
Schiaffi, pugni, ingiurie pesanti, minacce di morte e percosse difronte al loro figlioletto in lacrime terrorizzato dalle urla e dalla vista dei colpi sul corpo di sua madre. Un escalation di violenze iniziato inaspettatamente dopo aver dato alla luce il piccolo R.
Questo è lo scenario che fa da cornice alla vicenda di S. trentacinquenne, insegnante che oggi si ritrova a temere di non poter più proteggere suo figlio da un uomo violento.
Aveva conosciuto il padre di suo figlio grazie ad alcuni amici in comune, durante una vacanza in estate. L’amicizia con quell’uomo tranquillo e gentile si era trasformata in amore tanto che dopo alcuni mesi i due iniziano una convivenza.
L’anno seguente scoprono felici di aspettare un bambino. S. Si riteneva una donna fortunata con un lavoro stabile e gratificante in ambito educativo ottenuto dopo anni di studi e dedizione, ed ora un compagno amorevole e un figlio in arrivo.
Con l’avanzare della gravidanza e a causa delle numerose assenze del compagno, per motivi di lavoro, decidono di trasferirsi nel paese di origine per far si che S. potesse portare a termine la gravidanza a casa dei genitori con l’aiuto delle rispettive famiglie.
Passano i mesi e la situazione si fa sempre più difficile: S. racconta che l’uomo inizia ad essere sempre più freddo e distaccato, la ragazza inizia a sospettare un tradimento, intanto la pancia cresce. Presa dallo sconforto decide di entrare nel suo computer e quello che scopre la lascia senza fiato. L’uomo che ama la tradisce da tempo con diverse donne, lei legge tutte le chat di gruppi di incontri a cui il suo compagno partecipava attivamente. L’uomo scoperto giura di cambiare, che non lo farà più che la ama davvero.
Il sogno si spezza definitivamente quando, nel periodo di astensione dal lavoro per maternità, S. rinviene in casa un fascicolo che farà crollare per sempre quel progetto di vita familiare che pensava di aver costruito: si trova difronte ad una sentenza di condanna per uso e spaccio di cocaina che aveva portato il suo compagno in carcere per due anni. Incredula inizia leggere e conosce per la prima volta l’altra faccia del suo uomo: gioco d’azzardo, scambi di coppia, abuso di alcol e stupefacenti.
Le violenze fisiche iniziano nell’autunno di circa quattro-cinque anni fa, periodo in cui S. si ritrova a vivere una situazione quasi surreale: nei momenti in cui la coppia si trovava in contesti sociali il suo compagno era dolce, premuroso e gentile, ma chiusa la porta di casa iniziava l’inferno. Inferno del quale sono stati ripetutamente testimoni i parenti più stretti della coppia con i quali hanno per diverso tempo convissuto. Ci fu una notte in cui la madre di S. sentendo le urla della figlia e il pianto incessante del bambino da poco nato corse nella loro camera da letto e si trovò davanti ad una scena agghiacciante: l’uomo, rincasato mentre tutti dormivano, stava stringendo le mani intorno al collo della compagna insultandola e picchiandola mentre il bambino, svegliato dalla colluttazione, piangeva a dirotto affianco a loro.
S. ricorda come in un’altra occasione fu la stessa mamma dell’uomo a cercare di proteggere la nuora mettendosi tra lei e il figlio minacciandolo di raccontare tutto a suo padre. S. e spaventata ed inerme, ha paura per sé, per il bambino che dorme nella stanza accanto: non vuole che assista ancora una volta alla violenza incontrollabile del padre. Egli si allontana dalla donna, ma non riesce a placarsi e comincia prendere a calci e pugni tutti i mobili della cucina, lancia oggetti ovunque, le urla che la ammazzerà.
S. sfinita e provata si chiude in camera, la suocera la segue, piange e si scusa: è seriamente preoccupata per gli scatti d’ira che il figlio non riesce a controllare. Passano i mesi, la situazione peggiora tra promesse di cambiare, botte e insulti.
Arriva l’autunno dell’anno seguente e dopo una furiosa lite in cui quest’uomo violento trascina la sua compagna per casa afferrandola per i capelli di fronte al figlio di poco più di un anno. La minaccia, la butta fuori di casa insieme al bambino, la minaccia con una spranga di ferro e le dice che se fosse tornata l’avrebbe uccisa.
Quel giorno S. Capisce che potrebbe essere la prossima vittima di femminicidio ad essere letta sui giornali. Deve chiedere aiuto e proteggere il bambino. Fino a quel momento S. non aveva denunciato, aveva paura delle reazioni violente del compagno e per paura di non essere creduta visto il comportamento ambivalente di lui.
A quel punto però proteggere se stessa e loro figlio era diventata la priorità. Capisce che se avesse continuato a vivere nella paura probabilmente non avrebbe avuto scampo. Decide finalmente di sporgere formale denuncia con tanto di prove: messaggi e addirittura videoregistrazioni di un centro commerciale voce l’uomo aveva agito violenza nei suoi confronti.
L’uomo continua liberamente ad incontrare il figlio che intanto regredisce: torna a volere il ciuccio, la notte ha improvvise crisi di pianto, ad avere paura di tutto.
Il tribunale di Bologna con una sentenza del 2017 condanna l’uomo e lo riconosce colpevole di maltrattamenti, condotte violente, vessatorie, offensive, umilianti e denigratorie, minacce e aggressioni fisiche tutte aggravate dalla presenza del figlioletto della coppia.
L’uomo continua a minacciarla anche dopo la sentenza, le dice che tanto lui in galera c’era già stato.
Un giorno le invia una mail dove le propone di incontrarsi per l’ultima volta. Vuole chiarirsi con lei, ma le chiede di non dire niente a nessuno e le scrive che non deve avere paura. Ma alla fine della pagina allega la foto di un pupazzo a terra morto, ucciso da un colpo di arma da fuoco alle spalle. S. È sempre più terrorizzata per lei e per il loro bambino. È consapevole del fatto che benché abbia chiesto aiuto nessuno li sta proteggendo.
Iniziano gli incontri protetti del padre con il piccolo insieme agli assistenti sociali. S. È preoccupata: un giorno il bambino, 4 anni appena, rincasa con uno zainetto pieno di petardi regalatigli dal padre e dai nonni paterni proprio durate l’incontro protetto: si tratta di veri e propri fuochi di artificio vietati ai minori di 18 anni la cui vendita a minorenni è addirittura punita con la reclusione. Eppure quei petardi erano stati usati e regalati al bambino proprio sotto gli occhi evidentemente non vigili o incompetenti o poco responsabili degli assistenti sociali.
S. denuncia la situazione ma inizia cosi per lei e suo figlio un calvario fatto di relazioni distorcenti – che S. non esita a definire “false” – nonché omissioni che i servizi sociali redigevano e trasmettevano al Tribunale competente, con il conseguente screditamento della figura materna.
S. si rende conto che la situazione si va inspiegabilmente complicando e decide di denunciare l’assistente sociale. Allega prove, email di posta certificata, scambi di messaggi, certificati e fotografie. Ma nel frattempo la macchina giudiziaria era partita tenendo conto anche di relazioni che non sarebbero corrispondenti ai fatti, come S. documenta minuziosamente. La donna manifesta in tutti i modi le sue preoccupazioni alle autorità giudiziarie competenti, ma senza mai ostacolare le frequentazioni del padre con il bambino.
Quello che S. ancora non sa è che nel frattempo l’iter per la tutela legale del bambino la getterà in un vortice di “false accuse”, come lei rivendica, e contraddizioni giudiziarie che le vedono sottratta la possibilità di proteggere suo figlio e ricominciare a vivere una vita normale.
Nel maggio del 2019 la Procura piemontese vista la pericolosità della situazione stabilisce, per proteggere il bambino, l’inserimento di S. e di suo figlio in una comunità segreta protetta e sospende gli incontri con il padre. Ma appena un mese e mezzo dopo questo provvedimento, schizofrenicamente la Corte d’Appello ,basandosi proprio sulle “false” dichiarazioni dei servizi sociali, ritratta sulla pericolosità della situazione ed anzi incomprensibilmente ammonisce S. di avere un comportamento non collaborativo, addirittura inadempiente rispetto al decreto emesso dal Tribunale, disponendo il divieto di espatrio del bambino.
Intanto si aspetta l’esito della ctu, ma prima ne viene richiesta un’integrazione per capire la capacità genitoriale di S. e del suo compagno.
Alla fine della consulenza tecnica d’ufficio, tutta incentrata solo sulla valutazione della capacità genitoriale di S. e non dell’uomo, pur condannato per violenza domestica, sorprendentemente viene richiesto di limitare la responsabilità genitoriale della madre con l’accusa di essere ostile, diffidente e sfiduciata nei confronti del padre di suo figlio. Già, di quell’uomo che l’ha percossa, tradita, umiliata e vessata davanti al figlio che nel frattempo è costretto a vivere in mezzo ad una battaglia legale che di certo S. non ha mai voluto, semmai si sarebbe aspettata uno Stato che avesse protetto lei e il suo bambino. A giorni ci sarà la sentenza definitiva e chissà se le verra’ riconosciuta la facoltà di poter crescere suo figlio o se dovrà pagare per aver denunciato e fatto condannare un uomo violento che forse, se S. non avesse avuto il coraggio e la forza di reagire, l’avrebbe messa a tacere per sempre.